La Social Entrepreneurship (parte 3) + ebook

La Social Entrepreneurship (parte 3) + ebook

Dopo essermi focalizzata sul social entrepreneur e sulle teorie della social entrepreneurship, siamo giunti al nostro terzo ed ultimo appuntamento in questo mio approfondimento sulla social entrepreneurship. E per te che mi hai seguito per tutto questo viaggio, ti riservo una sorpresa alla fine di questo blog post: un e-book da scaricare gratuitamente.

Ripartendo dalla prospettiva estesa della social entrepreneurship, trova eco nella crescente enfasi data negli ultimi anni alla dimensione sociale dell’attività economica e nel progressivo superamento della convinzione che il profitto fine a se stesso rappresenti l’obiettivo ultimo ed esclusivo dell’impresa. Una visone più attenta alla sostenibilità sociale dell’attività d’impresa, spinge a sostenere la necessità di passare dalla massimizzazione del profitto in termini assoluti a una massimizzazione relativa di esso. Ciò induce ad adottare un orientamento al giving back rispetto alle opportunità che il contesto socio-economico e istituzionale ha offerto, ricercando la conciliazione dei bisogni dei portatori di interesse sociale con quelli dei portatori di capitale.

La visione descritta affonda le proprie radici nella cosiddetta “teoria degli stakeholder” proposta nel 1984 da Robert Edward Freeman, che vede nell’attenzione verso i portatori di interessi esterni all’impresa una leva strategica di fondamentale importanza, allargando la gamma dei soggetti aventi diritti e doveri nei confronti dell’impresa e creando, di fatto, una contrapposizione alla cosiddetta “teoria degli shareholder”, secondo la quale, invece, il dovere sociale dell’impresa consiste nell’ottenere i più elevati profitti in un mercato aperto, corretto e competitivo, producendo così ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile (Fiorentini, 2013).

La teoria degli shareholder viene spiegata dal premio Nobel per l’Economia Milton Friedman, in un famoso articolo pubblicato sul New York Magazine nel 1970, ed intitolato “The Social Responsability of Business i sto Increase its profits”. Tale teoria focalizza l’attenzione sugli azionisti, suoi loro interessi e sulla creazione di valore economico e della massimizzazione del profitto in una pura ottica affaristica che si può riassumere nella famosa citazione di Friedman: “business of business is business”. Invece nel suo “Strategic Management. A Stakeholder Approch”, Robert Edward Freeman punta l’attenzione non solo sugli azionisti, ma su tutti gli stakeholder, tutti i portatori di interesse, e quindi considera gli interessi ed il punto di vista di proprietari, clienti, dipendenti, fornitori, associazioni di categoria, competitors, in quanto possono influenzare le decisioni dell’impresa e nello stesso tempo essere influenzati dalle azioni dell’azienda.

Nel 1988 Edward Freeman insieme a William Evan, in un articolo del 1988 dal titolo “A Stakeholder Theory of the Modern Corporation: Kantian Capitalism”, formulano una teoria dell’impresa secondo il principio kantiano del “rispetto delle persone”, secondo cui devono essere trattate come fini in sé e non soltanto come mezzi per qualche fine e di conseguenza i manager hanno un “rapporto fiduciario” verso una ampia serie di stakeholders dell’impresa che sono dunque trattati come soggetti morali titolari di diritti. Evan e Freeman ricavano due principi per il management:

  • “l’impresa deve essere gestita per il bene dei suoi stakeholders: consumatori, fornitori, proprietari, dipendenti, e comunità. I diritti di questi gruppi devono essere garantiti, e, inoltre, tali gruppi devono partecipare alle decisioni che in modo significativo toccano il loro benessere”;
  • “il management intrattiene un rapporto fiduciario con gli stakeholders e con la corporation come entità astratta. Esso deve agire nell’interesse degli stakeholders in qualità di loro agente, e nell’interesse della corporation per assicurarne la sopravvivenza, salvaguardando gli interessi di lungo termine di ogni gruppo”.

Il primo Principio detto anche Principio di Legittimità Aziendale, ridefinisce lo scopo dell’impresa e implica la legittimità delle pretese degli stakeholders su di essa. Il secondo Principio, o Principio Fiduciario, definisce il dovere del management di riconoscere le pretese legittime degli stakeholders sull’impresa. La sfida etica per il management consiste perciò nel cercare di soddisfare le pretese legittime avanzate da una varietà di stakeholders dell’impresa, che include, naturalmente, anche i proprietari. Secondo tale teoria i proprietari non “possiedono” l’impresa, ma il loro sostegno è necessario alla sua sopravvivenza e il management deve mantenere in equilibrio le relazioni tra tutti i gruppi di stakeholders, coordinando e massimizzando gli interessi di tutti (D’Orazio E. 2003).

Ma il dibattito inizia molto prima, già nel 1931,con i giuristi Dodd e Berle sulla Harvard Law Review. Secondo Berle i poteri delle corporation devono essere utilizzati a vantaggio degli shareholders (azionisti) e i manager devono essere trustees, “amministratori fiduciari” degli investimenti che essi fanno. La replica di Dodd, arriva l’anno successivo ed evidenzia come le corporation non solo devono considerare gli interessi degli shareholders, ma anche gli obblighi che hanno verso la comunità dei lavoratori e consumatori.

Ed è negli anni novanta che si acquisisce la consapevolezza della rilevanza strategica dei comportamenti socialmente responsabili, i quali conferiscono una legittimazione sociale all’azienda e rinforzano le relazioni con gli stakeholders nel medio-lungo periodo. A ciò consegue la nascita del concetto di sostenibilità che guarda alla creazione di valore nel lungo periodo, prevalentemente sotto tre dimensioni: economica, ambientale e sociale, integrate fra di loro nella cosiddetta “Triple Bottom Line” (Elkington, 1998). Tale approccio è messo a punto nel 1997 da John Elkington nel libro “Cannibals with Forks: The Triple Bottom Line of 21thCentury Business” e le tre parole chiave sono: “People, Planet, Profit”, le cosiddette 3P riconosciute a livello internazionale ed utilizzate per la rendicontazione delle performance dell’azienda e per gli investimenti “sociali” sia per quanto riguarda la prosperità economica che la qualità ambientale fino all’equità sociale.

Una recente evoluzione di tali teorie è rappresentata dal concetto di Valore Condiviso o Shared Value. Il valore condiviso si rifà ai principi alla base della Responsabilità Sociale d’Impresa e sistematizza quanto è stato sviluppato dalla teoria e dalla pratica, contestualizzando il tema della sostenibilità sociale e ambientale a un livello strategico con impatti fino alla reale bottom line di business. In generale si ritiene che la ridefinizione degli obiettivi aziendali in termini di creazione di “valore condiviso” permetta di generare valore economico producendo al contempo valore per la società. L’approccio descritto rende possibile la realizzazione di una convergenza tra il successo dell’azienda e il progresso sociale. In termini pratici, tale approccio può essere realizzato ripensando prodotti e servizi, ridefinendo la produttività all’interno della catena del valore e costruendo cluster settoriali di sostegno sociale dove sorgono le sedi delle aziende.

Concludendo, se da un lato il non profit si ispira ed adotta tecniche gestionali tipiche del profit, dall’altro l’impresa profit si apre alla creazione di valore sociale. Inoltre l’integrazione tra imprenditorialità ed innovazione è in grado di generare un cambiamento sociale e fondamentalmente la social entrepreneurship punta all’orientamento al giving back e alla sostenibilità sociale.

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